19 Luglio 2023

Come in occasione della commemorazione della strage di Capaci, anche per quella di Via D’Amelio si corre il serio pericolo di scadere nella retorica di un rito ripetitivo, stanco, inconcludente.

Una sorta di celebrazione dell’ipocrisia da parte di un paese, l’Italia, che da un lato, a parole, professa la sua indole antimafiosa, dall’altro si adegua, scende a patti, cerca di tirare avanti. Sono trascorsi trentuno anni. Paolo Borsellino, Manuela Loi, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina e Agostino Catalano, traditi e assassinati da vivi, furono nuovamente traditi da morti.

Rimangono scolpite nella memoria le immagini di strade e palazzi sventrati, gelosamente custodite nelle teche delle televisioni, che a ondate ricorrenti, anche se con scopi differenti, le ripropongono.

Rimangono ancora aperti tanti processi, forse troppi perché ancora insoluti, visto che sono trascorsi 31 anni dalla strage.

Il fatto è che la retorica poteva andar bene – semmai – per coprire il primo tratto di strada. Poi la società civile tutta avrebbe dovuto fare delle scelte più rigorose, più radicali, nell’ottica di voltare pagina per sempre.

Ormai persino i sassi hanno capito che Paolo Borsellino firmò la sua condanna a morte, quando, davanti alla trattativa che era già in atto fra lo Stato e la Mafia, pronunciò il suo “non ci sto”, diventando un inconsapevole intralcio istituzionale.

Eppure mai come oggi è importante ricordare Borsellino, per scoprire la verità sulle stragi, che in parte già sappiamo e in parte intuiamo da quello che non sappiamo.

Una verità che vede coinvolti uomini e apparati politico-istituzionali contro ogni squallido tentativo di ridurre le stragi a storia di bassa macelleria criminale.

Ed allora oggi siamo qui per cercare di dare un senso a commemorazioni come la strage di Via d’Amelio o di Capaci, per evitare di dire e di dirci sempre le stesse cose, oggi siamo qui perché pretendiamo che ci vengano date quelle risposte a quegli interrogativi che da decenni vengono negate; siamo qui perché vorremmo guardare, osservare, leggere l’agenda rossa di Paolo Borsellino, l’agenda con i nomi, gli appunti, le impressioni , gli spunti e le indagini fatte da subito dopo la strage di Capaci, un’agenda da cui lo stesso non si separava mai, sparita, passata di mano in mano tra uomini dello Stato mentre ancora si sentiva il puzzo dell’esplosione di Via D’Amelio; siamo qui perché vogliamo sapere chi furono le “menti raffinatissime” che suggerirono ai mafiosi, ai pecorai, di organizzare le stragi di Milano, di Firenze e di Roma, luoghi altamente simbolici, densi di valori e di cultura, ossimori per i mafiosi che, probabilmente, nemmeno li avevano visti in cartolina; noi siamo qui perché vogliamo sapere chi furono gli organizzatori del più grande depistaggio di Stato (secondo solo a quello del 1947 con la “Strage di Portella della ginestra”) attraverso la creazione in laboratorio di un falso pentito (Scarantino) inventato ad arte per declassare la strage a fenomeno di bassa macelleria criminale, così da celare l’effettivo coinvolgimento di ampi pezzi dello Stato.

Se affrontiamo queste commemorazioni con questo spirito, con questa sete di conoscenza, se leggiamo la storia con il giusto spirito critico, sfuggendo alla facile e mistificata narrazione di chi vuole raccontarci la favoletta dei pastori mafiosi con il vestito di fustagno, daremo un senso al sacrificio di Borsellino e di tanti altri (Falcone, Dalla Chiesa, Chinnici, Ciaccio Montalto, Fava, Impastato) uccisi dal perverso e criminale connubio tra la mafia e importanti apparati dello Stato.

Qualche mese fa la mafia ci ha consegnato Messina Denaro, un fantasma con il montone, un malato terminale di cui sappiamo tanto, pure il nome dell’amante ed il modo in cui ama bere la spremuta di arance, calda; ecco, a noi poco importa quanti selfie si faceva quotidianamente, a noi interessa sapere chi sono stati i suoi fiancheggiatori, chi ha permesso che il più pericoloso stragista degli anni 92 e 93, per oltre trent’anni, circolasse indisturbato nel suo territorio, senza colpo ferire, quali e dove siano stati i suoi covi durante la sua latitanza.

La lotta alla mafia non può e non deve ridursi ad una lotta contro “pastori con il maranzano”; la mafia, sin dal primo omicidio di fine ‘800 del direttore generale del Banco di Sicilia Emanuele Notarbartolo, è inserita in un sistema di rapporti di complicità, di connivenze, che coinvolgono professionisti, imprenditori, amministratori pubblici, uomini politici, uomini dell’alta finanza, soggetti che affiancano i capi della mafia e formano la “borghesia mafiosa” o “zona grigia”.

Quella zona grigia che Falcone e Borsellino, con la creazione del reato di “concorso esterno” seppero efficacemente contrastare, reato, oggi, oggetto di vivace dibattito politico.

E allora, se vogliamo veramente onorare la memoria di Paolo Borsellino, con tutte le nostre forze dobbiamo sfuggire ad ogni forma di connivenza ed opporci “al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.

Avv. Gianfranco Morello
Consigliere COA Caltagirone

 

19.07.2023
In occasione della commemorazione della strage di Paolo Borsellino e della scorta.

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Modificato: 25 Luglio 2023